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Brexit: dopo tre anni dal Leave dove siamo rimasti?
Gli inglesi erano euroscettici prima che diventasse di moda. Già la Tatcher era indisposta verso i contributi che andavano versati alle CEE e non è mai mancato un certo distacco emotivo da parte della Gran Bretagna, come se fosse quel cugino introverso che non ha amici tra i parenti.
Gli inglesi erano euroscettici prima che diventasse di moda. Già la Tatcher era indisposta verso i contributi che andavano versati alle CEE e non è mai mancato un certo distacco emotivo da parte della Gran Bretagna, come se fosse quel cugino introverso che non ha amici tra i parenti. Manca meno di un mese all’uscita ufficiale del Regno Unito e il futuro dell’isola non è mai stato così incerto e preoccupante. A gennaio la Camera dei Comuni non ha approvato il deal della May: una sconfitta clamorosa che rimarrà nei libri della storia e che ha rovinato la reputazione del Paese. A far crollare la maggioranza di Theresa è stato principalmente il backstop: la soluzione pensata dalla premier per il confine tra le due Irlande. Fin dagli albori della campagna referendaria, indipendentisti e simili hanno sempre celebrato la cosiddetta Hard Brexit come lo strumento di rivalsa di un popolo magnifico rovinato da Bruxelles. Hard Brexit significa però anche “hard borders”. Conviene così tanto agli inglesi una nuova dogana? L’unico confine terrestre del Regno Unito si trova tra Eire e Ulster e per molti decenni è stato il teatro di una vera e propria guerra civile che ha portato a 3000 morti.
Una pace fu possibile solo nel 1998 con un accordo per aprire il confine e il libero scambio tra le due Irlande. Aprire una frontiera significa demilitarizzare la zona e così negli ultimi 21 anni il conflitto sembrava essere in letargo. La stessa premier May non saprebbe cosa aspettarsi da un confine nuovamente chiuso, nuovamente militarizzato. Imporre nuove dogane significherebbe appunto riportare le forze armate al confine e la questione irlandese potrebbe riaccendersi: ulteriori problemi per il Regno Unito. Inoltre molti imprenditori di una o dell’altra Irlanda vendono all’altra parte: ulteriore crisi economica per il Paese.
Nella sua essenza la Brexit significa caos e continua incertezza; nella pratica è solo peggio. Il backstop prevedeva che il confine tra le due Irlande non sarebbe cambiato. I conservatori più tradizionalisti lo hanno interpretato come una divisione in due del Paese: un’Irlanda del Nord con un piede dentro e uno fuori dall’Unione europea.
Per cui a un mese dall’uscita, il “no deal” sembrerebbe l’unica certezza e piace a ben pochi come soluzione. Ora si parla di compromesso Malthouse, dal nome delle Ministro dei Governi locali, che proporrebbe un trattato di libero commercio di base. Qualcosa che Bruxelles non accetterebbe mai in quanto introdurrebbe nel mercato interno prodotti non più limitati dagli standard europei. Il countdown si fa più vicino, ma sono convinto che da questa situazione non ne usciremo più fuori. Dal 2016, l’Italia perde 2 miliardi all’anno di export solo in Regno Unito: il Leave inglese è solo la prima prova materiale di quanto un voto di pancia possa rovinare la società. E pensare che la campagna euroscettica convinse molti inglesi blaterando che i soldi investiti nell’UE sarebbero poi andati nel Sistema sanitario nazionale. Nella realtà, il Regno Unito sta facendo scorte di farmaci.
Giorgio Ferrigno
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