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Maxiprocesso: le persone e le storie. Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi

Primo grande collaboratore di giustizia, figura chiave nel processo palermitano, «grossissima personalità» che ha permesso a Giovanni Falcone di smontare, pezzo per pezzo, la Cupola di Cosa Nostra.

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Don Masino, Robin Hood, il boss dei due mondi: Tommaso Buscetta è stato tutti questi personaggi. Ma prima ancora e più di tutto è stato un uomo, un uomo di mafia, che credeva nei valori mafiosi e non li ha mai rinnegati. Nemmeno quando ha iniziato a collaborare con Giovanni Falcone, durante le indagini che avrebbero poi portato al Maxiprocesso.

Era il 1984 e Tommaso Buscetta si trovava in Brasile, dove gestiva tutto il traffico di eroina e cocaina verso gli Stati Uniti. Prima aveva vissuto in Svizzera, Messico, Canada, era stato arrestato e poi rilasciato su cauzione a New York. Aveva eluso la giustizia per più di dieci anni, evadendo dalle carceri, affidandosi a false identità e ad interventi di chirurgia plastica. Poi, grazie ad un’indagine della polizia brasiliana, è stato catturato ed estradato in Italia: traffico di stupefacenti, questa l’accusa iniziale; non 416bis, l’associazione per delinquere di stampo mafioso che era arrivata nel nostro codice penale solo due anni prima, nel 1982, grazie alla legge Rognoni-La Torre (ed al sacrificio di tante vittime innocenti). 

Era il 1984, Tommaso Buscetta in volo verso l’Italia con Gianni De Gennaro, all’epoca vicequestore di Palermo (poi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ottimo dirigente pubblico, Capo della Polizia durante il G8 di Genova, indagato e poi assolto per i fatti della Diaz, che sono valsi al nostro Paese una condanna per il reato di tortura da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo – questo per dire che ci sono luci ed ombre nella vita di ognuno, anche e soprattutto dei servitori dello Stato, ed è giusto riconoscerlo senza nulla togliere ai loro successi), convinto a collaborare dallo stesso De Gennaro, inizia ad aprirsi alle prime confidenze. «È una grossissima personalità» dirà poi il vicequestore ai microfoni di Enzo Biagi, parlando di un Buscetta provato fisicamente dal tentativo di suicidio di qualche tempo prima, non appena appresa la notizia dell’estradizione in Italia.

Tommaso Buscetta nel 1984 al suo arrivo all’aeroporto di Fiumicino

Un pentito, quindi? No: per essere un pentito bisogna pentirsi. Il boss dei due mondi invece non si pentirà mai, nemmeno quando Cosa Nostra gli ucciderà due dei nove figli (la lupara bianca, sparizione dei loro corpi nel nulla); non quando gli assassinerà il fratello, il nipote, il cognato. Mai. Lo dirà lo stesso Buscetta nel 1988 sempre ad Enzo Biagi, in una delle due interviste che il giornalista realizzò volando negli Stati Uniti – da vedere, alcuni estratti si trovano in “Rai3 per Enzo Biagi, le grandi interviste: Tommaso Buscetta e la mafia” – forse il documento più sorprendente che resta di questo personaggio: «Tommaso, lei è ancora mafioso?», «sì, a modo mio lo sono, mi considero un collaboratore di giustizia, non un pentito»; «e perché è diventato un collaboratore di giustizia?», «per la dignità umana». 

Biagi intervistò Buscetta una seconda volta nel 1992, qualche giorno dopo la morte di Paolo Borsellino, mesi dopo quella di Giovanni Falcone e della sentenza di Cassazione che aveva concluso con 346 condanne di cui 19 ergastoli il Maxiprocesso. Processo che lo aveva portato a confronti molto intensi, tra cui quello con Pippo Calò, strangolatore dei suoi due figli su ordine di Totò Riina. L’incalzare dell’intervista, la precisione delle domande, le risposte del boss dei due mondi, riascoltate oggi dipingono un uomo profondamente mafioso, ma deluso e contrariato dall’atteggiamento di Cosa Nostra, organizzazione in cui non si riconosceva più. Delinquente fin dall’adolescenza, affiliato nel 1945 nel mandamento palermitano di Porta Nuova, figura chiave nella prima e nella seconda guerra di mafia, Buscetta disse che era entrato a fare parte della famiglia per curiosità, e che fino al 1963 nessuno si sarebbe permesso di uccidere poliziotti e magistrati. La mafia doveva costituire un argine al potere dello Stato, senza annientarlo. Poi è cambiato tutto, e davanti al fallimento dei suoi ideali – e soprattutto davanti ad un magistrato come Giovanni FalconeBuscetta raccontò. Tutto? Assolutamente no. C’erano dei discorsi che lui non poteva fare, e che anche Falcone, a parer suo, doveva evitare. «Fermiamoci, più in là non possiamo andare, né io né lei». 

Il rapporto con Giovanni Falcone è forse uno degli aspetti più complessi ed insieme affascinanti della vita di Tommaso Buscetta. Non a caso la figura del boss dei due mondi è stata negli anni oggetto di narrazioni teatrali e cinematografiche: Il traditore di Marco Bellocchio è solo l’esempio più recente (e riuscito). Tra Buscetta e Falcone c’era un rapporto di fiducia, “il dottore Falcone”, così lo chiamava, fu lui a capire attraverso le sue parole cosa fosse la Cupola (che in realtà era la Commissione), a comprendere il significato mafioso del termine “famiglia”, ad inseguire il sistema e non il singolo imputato. «Pochissimi capiscono la mafia e cominciano ad andarsene tutti», questo insieme di “persone adatte”, poliziotti e magistrati capaci di leggere tra le righe di Cosa Nostra e con questo combatterla. Il primo vero collaboratore di giustizia diede al Pool antimafia di Palermo le informazioni necessarie per instaurare solidamente il Maxiprocesso, ma poi si fermò, per proteggere se stesso ma quasi a voler proteggere anche Giovanni Falcone, che da uomo di Stato perseguiva la strada della verità. E la verità travolgeva anche la politica.  

Tommaso Buscetta, Don Masino, Robin Hood, il boss dei due mondi, tre mogli e nove figli, una sospensione da Cosa Nostra per adulterio, mafioso e collaboratore di giustizia, morì in Florida nel 2000, protetto da una nuova identità. Era stato estradato negli Stati Uniti anni prima, ed aveva ricoperto un ruolo centrale nelle indagini sulla mafia americana, scaturite nel processo Pizza Connection. Nel 1992, dopo la morte di Falcone e Borsellino, aveva finalmente cominciato a parlare di alcuni legami tra mafia e politica, testimoniando anche nei processi a carico di Giulio Andreotti per associazione mafiosa e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Nel 1993 aveva perdonato l’esecutore degli omicidi dei suoi due figli: non avrebbe potuto far altro che eseguire gli ordini. Un pensiero molto mafioso, un personaggio controverso fino alla fine. 

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Laureata in Giurisprudenza all'Università di Bologna, alunna della Scuola di Politiche, attualmente vivo a Roma, dove ho frequentato un master in Istituzioni parlamentari che mi ha portato a lavorare per qualche tempo alla Camera dei deputati. Appassionata di cinema e politica, le mie radici sono a Rimini, città di Federico Fellini.

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