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Si toglie la vita l’attivista Sarah Hijazi, una vita spesa a combattere per i diritti
“Ai miei fratelli e sorelle, ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici, l’esperienza è dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo, sei stato davvero crudele! Ma io perdono”. Queste sono le ultime parole di Sarah Hijazi, l’attivista LGBT+ che si è suicidata domenica 14 giugno, all’età di 30 anni.
Che la terra ti sia lieve.
“Ai miei fratelli e sorelle, ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici, l’esperienza è dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo, sei stato davvero crudele! Ma io perdono”. Queste sono le ultime parole di Sarah Hijazi, l’attivista LGBT+ che si è suicidata domenica 14 giugno, all’età di 30 anni.
Il 22 settembre 2017, Sarah Hijazi -insieme ad altre 77 persone- venne arrestata per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto dei Mashrou’ Leila (un gruppo libanese) al Cairo. Sognavano l’amore, l’uguaglianza, i diritti, la libertà di non dover nascondere la loro natura, la loro scelta, il loro essere. E’ bastata una semplice bandiera, sventolata con fierezza sotto il palco montato al parco dell’università Al Hazar, per sbatterla con violenza in un buco 3 metri per 3.
Lo stesso buco che ha intrappolato Giulio Regeni, ancora senza giustizia, e che purtroppo trattiene Patrick Zaki, di cui si sa sempre meno. E’ finita in prigione per quel semplice gesto, per quell’attimo d’esultanza nato sentendo le parole liberatorie di Hamed Sinno, dei Progetto Notte e dei Mashrou’ Leila. Una band conosciuta in tutto il mondo ma vittima di censure in Medio Oriente (a partire dall’Egitto e dal Libano stesso) perché accusata di difendere i diritti LGBT+.
La foto era finita sui media e il leader religiosi avevano chiesto la punizione per gli attivisti. Per tutto il tempo in cui è stata in carcere, Sarah Hijazi ha subito violenze e torture. Gli stupri continui per farle pagare il prezzo del suo gesto, le botte a scopo educativo, le bastonate sulle gambe, sulla pancia, sulla schiena, gli sputi e le umiliazioni.
“Hai voluto sventolare la bandiera in faccia alle guardie cairote? Hai superato il limite. Che ti sia di lezione”, così mi immagino il dialogo tra lei e i suoi carcerieri.
Inoltre, fregandosene del fatto che avesse intrapreso un percorso di transizione verso il sesso femminile (persona trans Male to famale), le autorità egiziane la misero ugualmente nel braccio maschile. Sarah Hijazi subì tutto l’odio pensabile.
Sarah Hijazi era l’unica donna a essere detenuta in una campagna di arresti durata oltre tre settimane con raid nelle case, arresti e uso di app di incontri per individuare i sospetti. Il reato commesso, secondo il procuratore generale Nabil Sadek ( lo stesso che si occupa della morte di Giulio Regeni, per cui l’Egitto parlò di incidente d’auto, droga e – appunto – relazione gay), è “promozione della devianza sessuale e dissolutezza”. Una minaccia alla sicurezza nazionale.
E’ vero, l’omosessualità in Egitto non è propriamente un reato. Ma in carcere si va con altre accuse: immoralità, blasfemia e violazione delle leggi che vietano “pensieri e atti devianti contrari alla pubblica morale”.
I numeri della repressione sono cresciuti sotto al Sisi – non che sotto i Fratelli musulmani o prim’ancora Mubarak andasse diversamente – dall’ottobre 2013 al marzo 2017 (secondo l’ong egiziana Eipr), sono state detenute almeno 323 persone, 90 nel 2019.
“Negli stessi giorni in cui in Italia si deposita finalmente un disegno di legge a tutela delle persone LGBT+ dalla violenza e dalla discriminazione, molte e molti sostengono che l’omotransfobia non esista. Enti come la CEI, che professano di avere a cuore il benessere delle persone, rivendicano il diritto di poter continuare a dire ciò che vogliono contro gli individui LGBT+ in quanto tali”, spiega Pietro Turano, attore (interprete tra l’altro del famoso Filippo nella serie Netflix Skam Italia), vicepresidente Arcigay Roma e consigliere nazionale Arcigay.
“La storia di Sarah, che si toglie la vita proprio quando torna in libertà”, – aggiunge Pietro -, “dimostra che oltre alle violenze fisiche anche certe pressioni e certi danni psicologici spesso diventano insuperabili. In molti Paesi l’identità di genere e l’orientamento sessuale possono essere puniti con la morte o nella migliore delle ipotesi con repressione, violenza e prigionia. Questa triste storia – conclude l’attore e attivista – non è la prima e purtroppo non sarà nemmeno l’ultima. Dobbiamo ricordarci che quando si parla di diritti umani, l’odio non può essere considerato un’opinione, perché si parla delle nostre vite e della nostra dignità di popolo civile”.
Sarah Hijazi era stata rilasciata su cauzione tre mesi dopo. Aveva già tentato il suicidio dopo quanto subito in prigione. Le minacce e le offese che ha dovuto sopportare l’hanno annientata, in modo irreversibile. Non è bastata la campagna internazionale in suo supporto, non è bastata la liberazione, non è servito vivere in Canada da rifugiata politica.
Quel dolore non è mai passato, quei ricordi non sono mai svaniti, quelle urla e quelle botte non si sono mai del tutto cancellati dalla sua memoria.
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