Cittadini
Maxiprocesso: le persone e le storie. Paolo Borsellino, uomo di legge
La famiglia, l’amicizia con Giovanni Falcone, la serietà e la professionalità del magistrato simbolo della legalità e della lotta alla mafia.

Paolo Borsellino avrebbe compiuto ottant’anni a gennaio. Tra qualche giorno ne saranno invece passati ventotto dalla sua uccisione a Palermo, davanti alla casa della madre Maria Pia. Era il 19 luglio 1992, due mesi dopo la morte di Giovanni Falcone a Capaci, cinque anni dopo l’avvio del Maxiprocesso; e le indagini legate strage di via D’Amelio sono ancora in corso.
Paolo Borsellino era nato e cresciuto nel quartiere palermitano della Kalsa, giocando a pallone proprio con Falcone, più grande di lui di qualche mese. Liceo classico, attività politica missina, laurea con lode in giurisprudenza a ventidue anni ed orfano di padre poco dopo, vinse il concorso in magistratura nel 1963 (il più giovane nella storia d’Italia), diventando di fatto l’unico a poter sostenere economicamente la famiglia. In quegli anni, mentre lavorava al Tribunale di Enna e poi, come pretore, in quello di Mazara del Vallo, riuscì a salvare dalla chiusura la farmacia del padre fino a quando, nel 1967, la sorella Rita si laureò ed iniziò a gestirla.
L’anno dopo il giovane magistrato si sposò con Agnese Piraino Leto, insieme a lei ebbe tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. La famiglia, nella vita di Paolo Borsellino, è sempre stata molto presente. Presente, unita, determinante e composta. E lo è tuttora: qualche anno fa, prima della maturità, sono stata nelle campagne romagnole ad ascoltare Salvatore Borsellino, suo fratello minore. Nelle parole, nel tono della voce, nei movimenti, c’era tanto di Paolo e c’era tanto di quel senso di legalità che, con la loro attività, i magistrati palermitani hanno rappresentato per il Paese. E continuano a rappresentare per tanti.

Dopo un’esperienza a Monreale, nel 1975 Paolo Borsellino venne trasferito all’Ufficio Istruzione di Palermo dove conobbe Rocco Chinnici, dirigente di quel dipartimento. Con lui diede avvio ad un sodalizio professionale e personale che lo portò, anni dopo, all’interno del Pool Antimafia ideato dallo stesso Chinnici ed affidato, alla sua morte, ad Antonino Caponnetto. Nel frattempo, sullo sfondo delle biografie di questi magistrati e con queste strettamente legate, c’erano le pallottole della mafia ed una Sicilia già violentemente controllata da Cosa Nostra. In quegli stessi anni erano stati uccisi magistrati, giornalisti, poliziotti. Cesare Terranova, Carmine Pecorelli, Boris Giuliano tra gli altri.
Nel 1986 Paolo Borsellino diventò Procuratore della Repubblica a Marsala, bersagliato dalle polemiche per essere stato nominato senza il rispetto del canonico criterio di anzianità. Nel marzo 1992 fece ritorno a Palermo come Procuratore aggiunto, al fianco del Sostituto Procuratore Antonio Ingroia. Nel frattempo Borsellino aveva iniziato parlare dei rapporti tra Cosa Nostra e politica: oltre ai politici della DC, iniziavano ad uscire i nomi di Dell’Utri e Berlusconi. Poi ci fu la strage di Capaci, ed alcune istituzioni dello Stato tentarono – almeno apparentemente, con ogni probabilità ipocritamente – di riservare a Borsellino un trattamento migliore di quello riservato a Falcone. Gli fu offerto di partecipare al concorso per diventare Procuratore Nazionale Antimafia: offerta che lui declinò.
Come ha raccontato ai microfoni di Rai2 qualche giorno dopo Capaci per ricordare l’amico e collega (Borsellino fu chiamato spesso in televisione tra maggio e luglio di quell’anno: ci sono interviste che fatico a guardare), durante il primo periodo di attività del Pool, Giovanni Falcone si era occupato di indagini bancarie, mentre lui si era occupato dell’aspetto militare della mafia, ovvero delle famiglie mafiose che erano state individuate a seguito delle indagini di Boris Giuliano. Fu incrociando quelle informazioni che capirono – “con meraviglia” – che si stavano occupando delle stesse persone. Fu da quel lavoro eccellente e da quell’intuizione metodologica che nacque il Maxiprocesso, l’istruttoria scritta a quattro mani all’Asinara, l’epilogo che conosciamo.

“La mafia è formata da persone che sono peggiori degli altri e che pertanto non deve esser vista forse come la vedevo io quando ero ragazzo, che a 14 anni invidiavo addirittura un mio compagno di scuola che si vantava di essere figlio o nipote di un capo mafia”. Lo disse quello stesso anno, riportando ad una dimensione umana e comprensibile quel fenomeno che sembrava così disumano ed incomprensibile. Lo disse subito dopo aver perso un amico fraterno, già probabilmente consapevole del suo destino. Lasciato solo anche mentre veniva invitato dappertutto a parlare di Giovanni Falcone. In quelle immagini c’è un uomo stanco e rassegnato, addolorato e comunque preciso, netto ed incalzante nel merito delle questioni di mafia. Duro con le ingiustizie istituzionali e pubbliche. Ed insieme, soprattutto, c’è un uomo che racconta un compagno di viaggio, lodandolo, con l’altruismo e la capacità propria di quelli che camminano di fianco a chi emana luce senza paura di esserne oscurati. Quelli che pensano che diverse luci messe insieme possano solo dare un risultato: più luce per tutti.
C’è un video di Paolo Borsellino che parla tra migliaia di persone, moltissimi giovani, alla Biblioteca comunale di Palermo. È del 25 giugno 1992. “(…) Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1º gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica.” Si riferiva alla morte di Falcone ma in realtà stava parlando dell’Italia di quegli anni (e di adesso): un Paese spesso irriconoscente, retorico, che – se può – cerca di delegittimare (e delegittimare non è dibattere) chiunque si stia occupando seriamente di qualcosa. Salvo poi piangere quando chi è lasciato solo, muore solo.

Il 19 luglio, tra quattro giorni, ricorderemo la strage di via D’Amelio, in cui hanno perso la vita Paolo Borsellino e gli uomini e le donne della sua scorta. Parleremo dell’agenda rossa del magistrato, delle indagini, dei depistaggi. Del movimento cittadino – quello delle Agende rosse – nato dopo quegli avvenimenti. E parleremo dell’albero piantato davanti a casa della signora Maria Pia, pieno di ricordi, di tristezza. E di speranza.
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