Economia
Passato e futuro del sistema pensionistico italiano
Il sistema pensionistico italiano non è sostenibile nel lungo periodo: perché e cosa possiamo imparare dagli altri paesi?

Il sistema pensionistico è, negli stati avanzati, uno dei pilastri portanti del welfare statale. Pensione significa futuro, equità, sicurezza, garanzie contro gli imponenti cambiamenti del presente. O almeno così dovrebbe essere. La sua sostenibilità sta diventando un problema sempre più rilevante per le casse pubbliche, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione e della bassa natalità. È necessario un ripensamento del sistema per la sua stessa sopravvivenza.
Breve storia
In Italia, un sistema pensionistico vero e proprio nasce nel 1895, sebbene un archetipo di welfare state si possa rintracciare già a partire dal 1861. Il sistema è a capitalizzazione (i fondi vengono investiti nei mercati finanziari) e viene affiancato, nel 1945, da un sistema a ripartizione finanziato con una percentuale della retribuzione dei lavoratori.
È a partire dalla seconda metà degli anni ’60 che iniziano i primi problemi. Nel 1965 viene istituita la pensione di anzianità, connessa agli anni di contributi indipendentemente dall’età, e nel 1969 il sistema privato viene definitivamente abbandonato. I dipendenti statali hanno la possibilità di andare in pensione dopo soli 20 anni di lavoro e l’indennità viene calcolata, per tutti i lavoratori, in base allo stipendio percepito nell’ultimo triennio, non a quanto effettivamente versato.
Come correttivo viene introdotto un sistema contributivo, ma solo nel 1995. Le pensioni iniziano così ad essere calcolate anche in base ai contributi effettivamente versati, ma non interamente, poiché il retributivo permane.
Infine, il problema della sostenibilità si manifesta prepotentemente negli anni della crisi dell’euro. Sono necessari cambiamenti draconiani. Nel 2011 la riforma Fornero alza l’età pensionabile a 67 anni (per la pensione di vecchiaia) e il passaggio al contributivo diventa completo.
Il problema della sostenibilità
Tuttavia, i problemi non sono ancora finiti: nel 2019, l’Italia si classifica 27° nel Melbourne Mercer Global Pension Index, un rapporto che mette in confronto i sistemi previdenziali di 37 paesi. Solo 19 punti alla voce sostenibilità, contro una media europea di 50.4. Pochi lavoratori sopra i 55 anni, una aspettativa di vita sempre maggiore, minima adesione a piani pensionistici privati e alto debito pubblico sono fattori che pesano molto.
Il Belpaese è anche l’unica nazione in cui gli sforzi di riforma vanno in una direzione regressiva: sul dato del Melbourne Index incide molto Quota100. La riforma, fortemente voluta dal leader della Lega, pone le basi per un “superamento involutivo” della Fornero. Il costo di 21 miliardi in 3 anni in deficit è un fardello per i conti pubblici: le pensioni vengono usate per l’ennesima volta come marchetta elettorale.
I primi della classe
Al vertice della classifica troviamo invece l’Olanda, seguita da Danimarca e Australia. Confrontandolo con quello italiano, il sistema olandese appare molto differente: l’età effettiva di pensionamento è di 65 anni e 2 mesi, contro i nostri 63 anni e 3 mesi, seppur le aspettative di vita in Italia siano maggiori. Inoltre, l’Olanda spende solo il 5,4% del PIL, contro il 16,2% del Belpaese. Infine, il sistema olandese si affida anche a fondi pensione privati, al contrario dell’Italia.
Quello australiano, invece, è un sistema quasi interamente privato e si basa sulla “superannuation”, cioè un fondo pensione in cui ogni lavoratore versa una parte del proprio stipendio che sarà poi investita nei mercati finanziari. A pesare sulle casse dello stato è solamente la pensione di vecchiaia, con un ammontare pari a circa il 3% del PIL federale.
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