Politica
Renzi in Arabia: il problema della ragion di stato
Anche in democrazia i rapporti con le dittature sono spesso inevitabili: possono i principi della realpolitik essere una valida spiegazione?

“L’ Arabia Saudita è il luogo del nuovo Rinascimento” afferma Matteo Renzi, al termine di un discorso tenuto con il principe saudita Mohammad bin Salman nell’ambito della Future Investment Iniziative, un summit già ribattezzato “la Davos del deserto”. Innovazione, sostenibilità, futuro sono le parole chiave della fondazione creata dal principe stesso, nel cui board siede proprio l’ex primo ministro. Iniziative sulla carta certamente condivisibili, se non fossero in antitesi con la realtà saudita, un paese i cui cittadini sono privi di qualunque diritto politico e civile.
Un paese che era anche stato al centro del dibattito internazionale, dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. E l’ex premier è oggetto di feroci critiche: può un senatore eletto tenere conferenze pagate da stati stranieri? Questa vicenda, al di là delle critiche di specie, pone al centro un problema fondamentale delle democrazie moderne: la giustificazione della ragion di stato. La realpolitik può giustificare la collaborazione tra regimi autocratici e democrazie liberali?
Il pragmatismo politico
Il termine realpolitik, cioè “Politica concreta”, realistica, fondata sugli interessi del paese e sulla realtà (interna o internazionale) del momento e non sui sentimenti, le ideologie, i principi (Oxford Languages), nasce in riferimento alla politica del cancelliere Otto von Bismark durante il XIX secolo, ma fu già teorizzato in precedenza da Machiavelli, ne “Il principe”.
È necessario disgiungere etica e politica e unico imperativo categorico del governante è quello di agire in vista del bene dei propri governati, qualunque siano i mezzi per raggiungere tale scopo. Un sentire che sembra lontano dai principi fondanti dei moderni stati liberali, ma che in realtà, in parte, guida l’agire anche dei governi democratici.
Il caso dell’Egitto

L’Unione Europea ed i suoi Stati membri hanno continui rapporti con la Russia e con la Cina, con la Turchia e con il Nord Africa, ma l’opinione pubblica alle volte sembra dimenticarsene e spesso nascono movimenti di sdegno di fronte ad episodi di attualità. Un paio di mesi fa Macron ha conferito la Legion d’Onore al dittatore egiziano Al Sisi: un gesto che è stato recepito da molti italiani come un affronto dopo la vicenda Regeni e che ha portato alcuni personaggi di spicco, primo tra tutti Corrado Augias, a restituire all’Ambasciata francese la stessa onorificenza data all’autocrate.
Ma l’Italia stessa, negli ultimi anni, ha addirittura rafforzato i rapporti commerciali con il Cairo, soprattutto per quanto riguarda la vendita di armi. Il fermo respingimento del modus operandi dell’Egitto, della mancanza di diritti e libertà, si scontra qui con il pragmatismo politico, con l’importanza di stipulare accordi commerciali che avranno un effetto positivo sull’economia italiana e sulla vita di molti lavoratori.
Una inevitabile contraddizione

Questa contraddizione è insanabile nelle democrazie moderne. L’imperativo dei governanti è il bene comune, la crescita, la libertà e la prosperità. E per ottemperare a questo mandato è spesso necessario avere relazioni con dittatori e regimi non democratici, mettendo in secondo piano i propri ideali e le proprie convinzioni, in vista di un fine più alto ma meno nobile.
È comunque necessario trovare un bilanciamento tra i due aspetti: se la legione d’onore ad Al sisi è quanto meno inopportuna e la visita di Renzi in Arabia nemmeno giustificabile con le motivazioni della ragion di stato, gli accordi commerciali e le partnership economiche sono spesso necessarie ed inevitabili per il benessere del proprio paese.
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