Sport
Il professionismo femminile non è questione di soldi, ma di diritti
Dalla prossima stagione le calciatrici italiane verranno finalmente considerate professioniste e quindi, finalmente, fare la calciatrice nel 2023 diventerà un lavoro.

Ciò che hanno in comune le più grandi sportive della storia italiana come Tania Cagnotto, Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, è che, oltre all’essere tutte incredibili campionesse, sono tutte dilettanti.
Per dilettante però si intende, secondo il vocabolario Treccani, “chi coltiva un’arte, una scienza, uno sport non per professione, né per lucro, ma per piacere proprio”. È difficile pensare a questa definizione cucita addosso alle campionesse sopra citate, considerato anche che, in questi termini, non è previsto che uno sportivo dilettante viva unicamente con i ricavi sportivi.
La legge 91/1981
Nella legislazione italiana, il professionismo sportivo è regolato dall’antica legge 91 del 1981, più volte al centro di dibattiti e critiche.
All’articolo 2 si legge infatti che
“Sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica.”
Ciò che si deduce dall’ultima frase è che la distinzione tra professionismo e dilettantismo sia totalmente in mano al CONI, che però non ha mai chiarito nulla in merito, lasciando di fatto alle singole federazioni l’ardua decisione.
Questo buco normativo ha fatto sì che le Federazioni ritenute oggi professionistiche in Italia siano unicamente quattro, calcio, basket, golf e ciclismo, e che sia in mano a queste decidere quali tesserati considerare professionisti e quali no.
La FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio), ad esempio, aveva adottato una politica chiara: sono professionisti solamente i calciatori che giocano nelle Leghe di Serie A, B e Pro, solo uomini, niente donne.
È notizia di ieri, 26 marzo 2022 (fa sorridere dirlo), che dalla prossima stagione le calciatrici italiane verranno finalmente considerate professioniste. Diventeranno così le prime donne a passare al professionismo nella storia dello sport italiano. Fare la calciatrice diverrà, nel 2023, un lavoro.
Il tema dei compensi

Quando il tema professionisti-dilettanti entra nel dibattito pubblico, il primo argomento di discussione è quello economico.
La prima premessa necessaria da fare è quella per cui, nell’analisi dei compensi degli atleti, è sempre bene considerare lo stipendio al netto degli sponsor che dipendono da una serie infinita di fattori (Flavia Pennetta, ad esempio, con la vittoria degli US Open ottenne un premio di tre milioni di dollari dagli sponsor, indipendenti dal suo “stipendio”).
Se infatti osserviamo cosa prevede la legge per gli atleti dilettanti, scopriamo come questi non abbiano diritto a nessun compenso denominato “stipendio”, ma unicamente a rimborsi spese regolati da contratti privati che l’atleta in questione stipula con la società.
Questo elemento, specie per chi è dilettante ma impegnato a tempo pieno nella propria attività, crea numerosi problemi che vengono spesso risolti con la trasformazione degli sportivi in atleti militari, arruolati nell’esercito, tra i carabinieri o tra le fiamme gialle (come Tania Cagnotto). Questo avviene poiché le istituzioni pubbliche hanno facoltà di garantire agli atleti uno stipendio fisso che, altrimenti, non avrebbero.
Il tema dei diritti

Al momento della diffusione della notizia sul professionismo delle calciatrici, orde di utenti disinformati sono accorsi per scrivere commenti d’odio sui vari social contro il calcio femminile in generale, lamentando la sua non bellezza e l’incredulità nel vedere le calciatrici pagate quanto i calciatori (cosa, come abbiamo visto, errata: è questione di sponsor e altri fattori regolati dalla legge del mercato).
Ciò di cui in verità bisognerebbe essere sconvolti è la situazione di mancanza di diritti e tutele a cui le atlete sono state sottoposte per anni: nessuna tutela assicurativa, nessun accesso a garanzie previdenziali e sanitarie (pochi giorni fa la partita di Serie A tra Lazio e Juventus è stata sospesa per mancanza di ambulanza), nessuna tutela contrattuale e soprattutto la gravissima presenza di clausole anti-maternità.
Con le scritture private, gli enti di fatto includono clausole di ogni tipo, come quella anti-maternità per le atlete: fece il giro del mondo la storia di Lara Lugli, pallavolista del Pordenone licenziata perchè incinta senza aver chiarito questa sua volontà al momento della firma del contratto.
Tutti elementi che non ci sogneremo mai di vedere nello sport maschile.
Diventare professioniste, dunque, non significa ricevere il tocco d’oro del re Mida, ma vedere riconosciuti i propri diritti fondamentali, come uno stato democratico avrebbe dovuto fare diverso tempo fa.
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